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«Non si può essere incolti al punto di amare solo cose di alta qualità». Come una saetta, l'arguzia di Fabio Mauri fulmina qualsiasi proposito di ridurre l'arte alla pura dimensione estetica. A lui, tra i massimi esponenti dell'avanguardia italiana degli ultimi cinquant'anni, il titolo stesso di «artista» suonava enfatico e fuorviante. Forse eccessivo per difetto. Preferiva considerarsi uno sperimentatore di atti linguistici espressi con tecniche diverse, dai dipinti ai collage, dal teatro alle installazioni agli scritti teorici: quadri che si scoprono attivi, diagnosi che diventano performative, corpi che passano all'azione. Ed è infatti l'«azione», «la forma del fare», il carattere distintivo della ricerca di Mauri, secondo Giacomo Marramao, che qui testimonia l'amicizia di una vita attraverso le riflessioni che l'hanno accompagnata. Ciascuno è stato interprete dell'altro, in un conversare mai interrotto che tocca il senso stesso dell'arte e del pensiero. Per Marramao, «l'arte al di là dell'arte» di Mauri allestisce una strabiliante officina di incessante smontaggio-rimontaggio della macchina scenica del mondo, tenendo alto così il proprio «coefficiente di radicalità», innanzitutto filosofico. Per Mauri, l'amico filosofo - a cui affida un ruolo-chiave nella sua performance più celebre - possiede un modo «quasi fisico» di comunicare i «contorni» di un'idea, e sa tenere a freno l'«euforia della teoria». Entrambi coinvolti sino in fondo, su fronti che si sono spesso incrociati, nell'esperimento del mondo.